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di Antonio Paolucci

Contini Bonacossi

La nuova sistemazione al Museo degli Uffizi di una delle collezioni più importanti. Testo pubblicato per gentile concessione de Il Sole 24ore

La collezione Contini Bonacossi, dopo due allestimenti provvisori, prima alla Meridiana di Pitti, poi in una zona marginale del complesso vasariano degli Uffizi, ha la sua definitiva e finalmente degna sistemazione in una serie di vani ricavati nell’ala di Ponente della Galleria. In occasione della “vernice” di questa importante addizione alle raccolte del massimo museo fiorentino (il 28 febbraio 2018) è stato presentato il catalogo della Contini Bonacossi, edito da Giunti per le cure redazionali di Claudio Pescio. Si tratta di un libro concepito e avviato una quindicina di anni or sono dalla mia collega e amica Caterina Caneva. A seguito della sua prematura scomparsa, il volume è stato sviluppato, integrato e portato a conclusione da un gruppo di storici dell’arte che hanno condotto lo scrutinio scientifico per le centoquarantaquattro opere d’arte (dipinti e sculture ma anche mobili, arredi e maioliche) che costituiscono la collezione.

In genere si parla di donazione Contini Bonacossi. Il termine che figura nei documenti ufficiali, richiede però una precisazione perché la donazione è stata il frutto di una convenzione o piuttosto di una transazione intervenuta fra gli eredi di quella straordinaria raccolta d’arte e lo Stato. La convezione che una commissione ministeriale appositamente nominata aveva negoziato con gli eredi (ne facevano parte i più bei nomi della storia dell’arte italiana, da Mario Salmi e Roberto Longhi, da Giuseppe Fiocco a Giorgio Castelfranco a Ugo Procacci) porta la data dell’8 marzo 1969. Il 22 maggio di quello stesso anno un decreto del Presidente della Repubblica che era, all’epoca, Giuseppe Saragat, formalizzava l’operazione. Che può essere così sintetizzata: gli eredi Contini Bonacossi donavano allo Stato con destinazione Uffizi, centoquarantaquattro pezzi. Ottenevano in cambio la libera esportazione per tutto il resto.


la scelta della commissione pur costretta per poter giungere in porto, ad alcune dolorose rinunce, fu concorde e basata sul criterio di assicurare alla città opere notevoli di arte fiorentina ed altre, atte a colmare alcune importanti lacune nella Galleria fiorentina


Mario Salmi poteva ben scrivere che “la scelta della commissione pur costretta per poter giungere in porto, ad alcune dolorose rinunce, fu concorde e basata sul criterio di assicurare alla città opere notevoli di arte fiorentina ed altre, atte a colmare alcune importanti lacune nella Galleria fiorentina”. Ed era pur vero che si trattava della acquisizione “più rilevante degli ultimi tempi, nel nostro Paese”. Avere portato agli Uffizi capolavori assoluti come l’affresco staccato di Andrea del Castagno proveniente dal castello del Trebbio e raffigurante la Vergine in trono fra santi e fanciulli della famiglia Pazzi, come la mirabile macchina d’altare del Sassetta conosciuta come Madonna delle nevi, come il San Girolamo nel deserto del Giambellino, un’opera dal livello qualitativo tale da ammettere in confronto solo con il San Francesco stigmatizzato della Frick di New York, come la Sacra conversazione del Bramantino o la Maddalena del Savoldo o il Giuseppe da Porto di Paolo Veronese, avere consegnato alle pubbliche collezioni opere di questo valore (come dimenticare, fra le altre, il San Lorenzo martirizzato del Bernini o la Serva che lava i piatti di Giuseppe Maria Crespi?) poteva essere legittimamente considerato, nel suo complesso, l’arricchimento storico artistico più importante del Novecento.

Dolorose però erano anche le rinunce che i commissari ritennero di dover accettare. Erano rinunce che si chiamavano Giambellino e Savoldo, Carpaccio, Zurbaran, Maestro della Santa Cecilia. Chi si chiamavano Piero della Francesca. Penso al Ritratto di profilo di Sigismondo Malatesta che, uscito dall’Italia, è oggi al Louvre.

Erano rinunce a tal punto dolorose da scatenare vivaci polemiche sulla stampa oltre che le attenzioni della magistratura fiorentina. Eppure il DPR 22/5/69 non lasciava scampo. La commissione di esportazione (io all’epoca giovane funzionario alla Soprintendenza fiorentina ne facevo parte) non aveva alternative: o concedeva il visto all’espatrio oppure proponeva al Ministero l’esercizio del diritto di prelazione. Sapendo bene tuttavia che le risorse finanziarie sul capitolo acquisti, erano all’epoca pressoché inesistenti.


"...500 per il Lotto, 250 per il Foppa. 750 milioni erano una cifra imponente nel 1975: con quei soldi, sulla piazza di Firenze, si potevano comprare almeno quindici appartamenti di dimensioni medio-grandi e di nuova costruzione.[...] Fu una telefonata di Giulio Carlo Argan a sbloccare la situazione. Dobbiamo a lui se quei due capolavori non sono oggi in qualche museo americano. "


Una sola volta l’Amministrazione riuscì ad esercitare il diritto di prelazione. Era l’estate del 1975 e vennero presentati all’Ufficio Esportazione di Firenze la Susanna e i vecchioni di Lorenzo Lotto e la Madonna col Bambino del Foppa. Il valore dichiarato per i due dipinti presentati insieme, era di 750 milioni di lire: 500 per il Lotto, 250 per il Foppa. 750 milioni erano una cifra imponente nel 1975: con quei soldi, sulla piazza di Firenze, si potevano comprare almeno quindici appartamenti di dimensioni medio-grandi e di nuova costruzione. Io e il collega Luciano Bellosi riuscimmo a convincere il Soprintendente Berti a mandare avanti la proposta di acquisto che noi avevamo istruito. L’obiettivo era arduo, quasi disperato. Il neonato Ministero spadoliniano sembrava non disporre di una cifra così cospicua. Fu una telefonata di Giulio Carlo Argan a sbloccare la situazione. Dobbiamo a lui se quei due capolavori non sono oggi in qualche museo americano.

Lo zelo dei magistrati fiorentini non riuscì a fermare (non poteva farlo) l’espatrio di capolavori e non arricchì di un solo numero di catalogo le pubbliche collezioni.

Ci riuscì invece e fu un arricchimento cospicuo di ben diciotto dipinti poi ridistribuiti fra le Gallerie dell’Accademia di Venezia e gli Uffizi (ai quali toccò, fra gli altri, la Madonna dell’Umiltà di Masolino, uno dei vertici sommi del Gotico Internazionale italiano) ci riuscì, dicevo, l’attività diplomatico-poliziesca di Rodolfo Siviero. Perché la guerra nazista con le sue speculazioni e i suoi traffici, aveva toccato anche Villa Vittoria a Firenze, sede all’epoca della collezione e della attività mercantile di Alessandro Contini Bonacossi. Un consistente gruppo di opere d’arte, nei primi anni Quaranta dello scorso secolo, era finito in Germania; in parte a seguito di requisizioni e transazioni commerciali non meglio precisabili, per la parte maggiore per effetto di vendite documentate (e almeno formalmente legittime) al maresciallo del Reich Hermann Goering. Tutte (accordo di Bonn del 1953) furono restituite all’Italia e acquisite al patrimonio pubblico.


"Altri dipinti Contini Bonacossi rimasti in proprietà agli eredi o transitati sul mercato, sono riuscito a farli comprare io, in anni più recenti, quando ero Soprintendente al Polo Museale fiorentino."


Altri dipinti Contini Bonacossi rimasti in proprietà agli eredi o transitati sul mercato, sono riuscito a farli comprare io, in anni più recenti, quando ero Soprintendente al Polo Museale fiorentino. Riguadano: il Cristo risorto attribuito a Tiziano e il Doppio ritratto di Palma il Vecchio (anno Duemila, costo di entrambi 2 miliardi di lire) e poi la Santa monaca e due fanciulli di Paolo Uccello (novembre 2001, costo 2 milioni di euro). Naturalmente i dipinti così acquisiti al patrimonio pubblico non fanno parte della collezione Contini Bonacossi selezionata in forza del DPR 22/5/69 ed ora esposta nell’ala di Ponente degli Uffizi, ma hanno trovato posto in altre sale della Galleria.

L’inaugurazione della Contini Bonacossi ci permette di riconsiderare la personalità di Alessandro Contini Bonacossi che è stato e resta, comunque lo si consideri, un grande protagonista del Novecento nel collezionismo d’arte e nel mercato.

Era un uomo di corporatura imponente e come posseduto da una energia vitale che ai contemporanei sembrava inesauribile. I suoi primi interessi mercantili e collezionistici sono per la filatelia. In questo settore inaugurò fortunate attività in Spagna, prima a Barcellona poi a Madrid. Tornato in Italia prese residenza a Roma, all’indirizzo di Via Nomentana 60, accanto a Villa Torlonia. Ormai Alessandro è lanciato nell’antiquariato di alta epoca. Frequenta Berenson, Lionello Venturi, Gustavo Frizzoni e soprattutto il giovane Longhi. Ecco la descrizione che del grande critico diede un testimone oculare, la ritrattista Leonetta Pieraccini presente a un ricevimento del 1923 in casa Contini: “un po’ più in là si profila la testa corvina di Roberto Longhi con gli occhi miopi socchiusi apparentemente distratti, invece attenti e pungentissimi”.


"Sono questi, i Venti e i Trenta dello scorso secolo, gli anni ruggenti del grande antiquario che ha accanto a sostenerlo negli affari, a consigliarlo negli acquisti e nelle vendite la amatissima moglie Erminia Vittoria Galli"


Sono questi, i Venti e i Trenta dello scorso secolo, gli anni ruggenti del grande antiquario che ha accanto a sostenerlo negli affari, a consigliarlo negli acquisti e nelle vendite la amatissima moglie Erminia Vittoria Galli, piccola modista conosciuta a Milano, figlia di poveri braccianti delle campagne cremonesi, più vecchia di lui di otto anni e già madre di una bambina al momento del matrimonio.

Sono gli anni dei frequenti viaggi in America – almeno uno all’anno – sul “Rex” o sul “Conte Biancamano”, dei lunghi soggiorni al “Pierre” o al “Plaza” di New York, dei grandi affari condotti con Joseph Duveen o con il finanziere Samuel Henri Kress. Si calcola che fra il ’27 e il ’32, Contini abbia ceduto a Kress ben quattrocento dipinti.

Alessandro Contini Bonacossi è fascista, il regime lo gratifica di titoli onorifici e quando, da Roma si trasferisce a Firenze allestendo e riempiendo di opere d’arte Villa Vittoria, è all’apice del successo e della considerazione; quest’ultima un poco offuscata dagli affari con Goering ai quali prima accennavo e dalla accusa di collaborazionismo, presto archiviata, subita nel dopoguerra. Morì a 77 anni nel 1955. Il resto è la storia della sua eredità, oggi finalmente visibile agli Uffizi.